venerdì, 29 Marzo 2024
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Quando noi giovani alpini andavamo in gita premio all’Arena per la lirica: meglio i muli

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Noi giovani alpini fummo arruolati d’ufficio e portati nel tempio della lirica all’Arena di Verona

Un’immagine dell’Aida di Verona, poco gradita ai giovani alpini d’un tempo

Ogni tanto qualcuno rispolvera l’argomento del ripristino della leva obbligatoria, cioè il servizio militare. Vedendo in giro così tante giovani e inconsulte schiene da raddrizzare, non sono contrario, anzi, solo a patto di non essere chiamato un’altra volta, avendo già servito nel lontano 1989 nel fu battaglione alpini Belluno, ex brigata alpina Cadore.

La prima cosa che si impara alla leva è dire addio. Subito al mondo civile e poi dopo un mese di addestramento anche ai compagni/fratelli di plotone: dopo il giuramento ognuno parte verso il proprio incarico, chi il fuciliere assaltatore, chi l’aiutante di sanità, il cuciniere, il radiofonista, il conducente di muli. Un trauma dopo l’altro con licenza parlando, perché se penso al mio povero nonno Luigi, prima fante sul Carso e poi mitragliere sul Grappa, un po’ mi vergogno. Cavaliere di Vittorio Veneto, alla fine della guerra non si tolse la divisa per mesi, dormendo su una sedia accanto all’uscio di casa, sempre pronto a scappare da una trincea scavata nella mente. Paragonato al suo, il mio militare è stato una lunga puntata di Happy Days.

Circa a metà leva, a luglio, un capitano amante della lirica, organizzò una gita di battaglione a Verona per assistere all’Aida. Dal momento che la lirica sta ai soldati di leva come il tartaro agli igienisti dentali, accadde che a pochi giorni dalla partenza, sui 40 biglietti gratuiti ne erano disponibili ancora 40, e dunque il capitano arruolò d’ufficio un folto gruppetto di volontari-melomani a loro insaputa. Oltre al sottoscritto, tra gli intrappolati della mia compagnia c’erano gli autisti Salgàro e Costini, i cucinieri Munaretto e Dal Piaz e i manovali Stradiotto e Chiuppese, oltre a un manipolo di più civilizzati “scritturali”, vale a dire soldati con mansioni impiegatizie.

Appena lasciata la caserma, una dionisiaca atmosfera da gita scolastica s’impadronì della corriera. Salgàro e Costini si annidarono sul fondo e si accesero subito delle canne grandi come ceri pasquali, mentre Stradiotto e Chiuppese si attaccarono a delle borracce piene di brandy. Il cuciniere Munaretto, sofferente di nervi, piangeva. Dato che il collega Dal Piaz ostentava nei suoi confronti una certa disumana indifferenza, ne ebbi pena e mi avvicinai. Intorno a loro c’era il solito vuoto. I cucinieri, che trascorrevano metà tempo nelle cucine e metà agli infernali macchinari asciugastoviglie, erano infatti impregnati di un odore che prendeva alla gola, un’essenza di rancida e corrosiva rigovernatura di piatti irrisolvibile da qualsiasi umano detergente. Potevano frequentarsi solo tra di loro. Prima di soccombere al suo letale fetore, riuscii comunque a distrarlo, raccontandogli di un miracoloso deodorante al muschio islandese da poco in commercio. Mi ringraziò a modo suo, con una raffica di bestemmie.

Arrivati all’Arena, il capitano consegnò a ciascuno il biglietto di ingresso. C’era tempo per mangiarsi un panino e girammo un po’ per la città, nota parzialmente al Costini, ultras del Modena che era stato al Bentegodi. Lasciata la birreria in ritardissimo, entrammo all’arena durante l’intervallo, ondivaghi come pipistrelli. Salendo gli spalti, Costini trasfigurò subito nel Gassman tifoso romanista dei “Mostri” di Dino Risi e raggiunto il punto più alto della gradinata, ci guardò con l’occhio spiritato. Adagio, piano, e sempre più forte, intonò: “Ai-da, Ai-da, va-ffan-xxxo! Ai-da, Ai-da, va-ffan-xxxo!”, che divenne presto un coro più alpestre che alpino. Stradiotto e Chiuppese saltavano come scimmie, Munaretto e Dal Piaz si sbracciavano effondendo vapori tossici, mentre Costini dirigeva da perfetto sciamano ultrà, col braccio che si muoveva su e giù verso la platea trasformata in rettangolo di gioco. Durò un minutino, una grande risata si levò dal pubblico, poi l’opera riprese e noi ci stendemmo sui gradini a osservare un’infinità di stelle. Come i giorni che mancavano al congedo.

 

Alberto Graziani