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Quirinale, affondata la padovana Casellati

Quirinale, affondata la Casellati si torna ai tre nomi di partenza: Draghi, Casini e Mattarella

Quirinalizie, per citare Mao: “La confusione è grande sotto il cielo”. Ma per lui il caos era funzionale alla rivoluzione che aveva in mente, e quindi concludeva: “La situazione è eccellente”. Sessant’anni dopo, in Italia, l’orizzonte per l’elezione del nuovo Capo dello Stato resta nero come il fumo che, metaforicamente, esce dal camino del parlamento. E anche come l’umore degli italiani, va aggiunto, i quali – se potessero – chiuderebbero a chiave dentro Montecitorio i 1009 grandi elettori, lasciandoli a pane e acqua, finché non avessero scelto un Presidente. È lo stesso metodo che usarono i viterbesi nel 1271: erano nelle stesse condizioni, esasperati per la lentezza con cui i cardinali dovevano eleggere il nuovo papa. Il metodo funzionò e fu eletto dopo poco Gregorio X. Da allora la riunione dei cardinali si chiama “conclave”, sotto chiave. Senza arrivare a questi estremi, la verità è che i parlamentari riuniti hanno buttato via una settimana di votazioni, fra schede bianche, astensioni e candidati bruciati – tanti, tantissimi – senza produrre niente. Con il rischio che nemmeno sabato, quando sono previste due votazioni, si risolva alcunché. Aveva ragione Romano Prodi quando ammoniva: “Più che di voti, è un problema di veti”. E di antipatie. Gli uni e l’altra hanno giocato parecchio nella sesta votazione di oggi pomeriggio, quando è stata affondata malamente la candidatura della presidente del Senato. Forse il centrodestra ha presunto troppo, puntando a rastrellare altri voti oltre al suo perimetro: intanto non è riuscito neanche a incassare tutti i suoi voti, circa 450, visto che la Casellati s’è fermata a 382. I franchi tiratori sono stati 71 e subito è iniziata la corsa alle responsabilità. “Fratelli d’Itali e Lega sono stati compatti, i voti mancanti vanno cercati in Forza Italia”, ha subito sbottato Giorgia Meloni, dando ragione a quanto scriveva Marco Travaglio sulla poca simpatia di cui gode la Casellati anche dentro il suo partito. Nessuna voce s’è levata dai forzisti a spiegare il contrario. Matteo Salvini, che sta dichiarando tutto a ogni ora, ha rimediato una figura non certo da statista, bruciando il nome di quella che è pur sempre la seconda carica dello Stato. Altro che spallata: Salvini ha gettato il centrodestra nel disorientamento. Tant’è che nell’ultima, inutile, votazione di oggi il suo schieramento s’è astenuto. Non è messo meglio il centrosinistra, che ha votato scheda bianca. Quindi, un altro nulla di fatto. La responsabilità di Letta, va detto, è stata quella di non aver mai preso il pallino in mano e condotto il gioco: ha sempre giocato di rimessa. Un comportamento non certo da Cruijff della politica, anche se lui può sempre difendersi citando l’aforisma di Andreotti: “Non sono di grande statura, ma non vedo giganti attorno a me”. Dal canto suo, l’altro Matteo, il Renzi da Rignano, senso della posizione e visione di gioco ne ha da vendere, neanche fosse l’Antognoni della sua Viola. Ufficialmente, si limita a frustare le non-scelte dei colleghi leader spiegando che “siamo a Montecitorio e non a X Factor”, ma sicuramente qualche idea in testa ce l’ha. Siccome, però, sa anche che quando parla lui per partito preso a sinistra fanno il contrario, è probabile che agisca di sponda per arrivare a pallino, come a biliardo. Adesso inizieranno i nuovi vertici notturni mentre domattina sono in programma altre riunioni per cercare una soluzione, che al momento appare ardua. Perché, come nel gioco dell’oca, s’è tornati indietro alla casella iniziale. S’è tornati alla terna di nomi classica su cui s’è incastrato tutto: Draghi, Casini, Matterella. E qui tornano anche in ballo tutti i veti che si sono incrociati in questi giorni. Se si fosse voluto davvero Draghi, a quest’ora sarebbe già Presidente: ma tutti lo stimano e poi ognuno, per motivi diversi, non lo vuole. Poi c’è anche il problema non di poco conto che la sua elezione rischia di portare a un cambio silenzioso di forma di governo, trasformando la repubblica parlamentare in una semi-presidenziale con il presidente che sceglie il premier. Casini è la soluzione dell’ex democristiano che accontenta molti, ma nei suoi confronti i nasi storti sono parecchi: più che un uomo super partes la critica è di essere un politico con la valigia pronto ad accasarsi dove gli conviene. Per quanto riguarda Mattarella, se l’elezione dura un altro po, farà la stessa fine dell’imperatore Claudio: si nascondeva dietro le tende del palazzo imperiale perché voleva sparire agli occhi di tutti; quando i pretoriani lo trovarono vedendo i piedi che spuntavano sotto le tende, lo proclamarono imperatore portandolo in trionfo. Il Presidente ha spiegato in tutti i modi che non vuole essere rieletto per motivi di correttezza istituzionale, tanto per non trasformare la repubblica in una monarchia. E ha ragione. Però se andassero tutti a chiederglielo (dato che Mattarella non può essere eletto con meno voti del 2015) potrebbero forse convincerlo. Forse.   Antonio Di Lorenzo      
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