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Ricerca medica
18.03.2025 - 17:29
Il professor Claudio Bilato
Un importante passo avanti nella ricerca sul rischio cardiovascolare potrebbe venire dalla comprensione di una proteina spesso trascurata: la lipoproteina A, o Lp(a). Per chi soffre già di ipertensione, colesterolo LDL alto e fumo, la presenza di Lp(a) nel sangue sembra moltiplicare notevolmente i pericoli di malattie cardiache e aterosclerosi. A spiegarlo è Claudio Bilato, direttore della Cardiologia degli ospedali dell'Ovest Vicentino e professore presso l’Università di Padova, che durante un evento tenutosi presso la sede milanese di Novartis ha illustrato i risultati delle recenti ricerche in merito.
Scoperta nel 1963 dal medico norvegese Karl Berg, la lipoproteina A è stata oggetto di numerosi studi epidemiologici, che hanno evidenziato una forte correlazione tra i suoi livelli elevati e il rischio di malattie cardiovascolari, in particolare aterosclerotiche. "La lipoproteina A è una forma modificata di colesterolo LDL, legata a una proteina chiamata apoproteina A, che la rende particolarmente pericolosa", afferma Bilato. "Rispetto all’LDL, la Lp(a) ha un impatto sei volte superiore nella formazione di placche aterosclerotiche, oltre a essere fortemente proinfiammatoria e proateriosclerotica."
Nonostante la sua pericolosità, fino a oggi non erano disponibili farmaci davvero efficaci per abbassare i livelli di questa lipoproteina. In passato, infatti, i farmaci riuscivano a ridurre i livelli di Lp(a) solo del 30%. Tuttavia, nuovi trattamenti in fase di studio promettono risultati decisivi. "Attualmente sono in fase di sperimentazione due molecole in grado di silenziare il gene responsabile della produzione della lipoproteina A", spiega Bilato. "Una di queste è un oligonucleotide antisenso, capace di ridurre i livelli circolanti di lipoproteina A dell'80-85%. Questo trattamento è al centro di uno studio multicentrico e multinazionale che mira a verificare se questa riduzione porti anche a una diminuzione significativa degli eventi cardiovascolari."
Se confermati, questi risultati potrebbero rappresentare una svolta per i pazienti a rischio cardiovascolare, aprendo la strada a trattamenti più mirati e potenzialmente più efficaci.
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