Scopri tutti gli eventi
L'intervista
27.07.2025 - 06:37
Nadia Nicoli
Sono passati trent’anni da quel luglio 1995 in cui oltre 8000 uomini e ragazzi musulmani furono brutalmente sterminati dalle milizie serbo-bosniache. Parliamo del genocidio di Srebrenica, il più grave in Europa dopo la Seconda guerra mondiale, ancora oggi una ferita aperta nel cuore del continente. Un massacro che ha segnato uno dei capitoli più bui delle guerre che, durante tutto il decennio degli anni Novanta, hanno insanguinato i Balcani dopo la dissoluzione dell’ex Jugoslavia. Mentre l'Europa era squarciata dalla violenza delle tensioni etniche, c'è chi ha scelto di non voltarsi dall'altra parte, aprendo le porte di casa e del cuore a chi cercava di fuggire da quell'inferno.
Tra queste persone c'è Nadia Nicoli, originaria di Marostica ma residente a Riese Pio X, che con la sua fioreria, è stata un importante punto di riferimento per Castelfranco. Con una semplicità disarmante, rivive quei momenti in cui, trent'anni fa, partiva insieme al marito dalla sua cittadina con un furgone carico di latte in polvere, pannolini, coperte, medicine. Senza sapere una parola di serbo o di croato, attraversava la frontiera per salvare quante più vite possibili, portando con sé solamente un profondo spirito di accoglienza. “Eravamo legati all’ex Jugoslavia da forti amicizie. Mio suocero aveva fatto il militare in Istria, quando ancora era italiana. Da allora quei rapporti non si sono mai interrotti”.
Uno degli amici più cari era un ufficiale bosniaco di alto rango, sposato con una donna croata. Quando scoppiò la guerra si trovò di fronte a un bivio: combattere per la famiglia di origine o per quella che si era creato. Fece la scelta più difficile: non combattere affatto. Una decisione pericolosa che, in tempi di guerra, equivaleva a un marchio da disertore. "Aveva paura. Un suo collega, che aveva fatto la stessa scelta, era stato sgozzato insieme alla moglie e ai figli. Così decise di fuggire con la compagna, oltrepassando la frontiera attraverso i boschi".
Ma i figli erano rimasti con la nonna. E fu allora che Nadia decise di oltrepassare di nuovo il confine per metterli in salvo, nonostante i rischi. "Non avevo paura. Per me era una cosa normale. Dovevo farlo" racconta. "Avevo i miei figli registrati nel passaporto, erano quasi coetanei. Così alla frontiera ho spacciato quei bambini per miei. Forse sono stata un'incosciente, ma sentivo che non potevo lasciarli lì". La casa di Nadia divenne un rifugio sicuro per la famiglia fino alla fine della guerra.
Ma quel viaggio fu solo l'inizio di una lunga avventura umanitaria. Nadia e il marito misero in piedi una fitta rete di contatti, organizzando spedizioni nei campi profughi, nelle case distrutte, negli ospedali. E proprio in una di queste missioni conobbe quella che sarebbe diventata una sua carissima amica. "Mi chiesero di dare una mano all'ospedale vecchio di Zagabria, che ospitava le donne violentate durante la guerra. Le atrocità che avevano subito si leggevano nei loro occhi. Molte si chiedevano se i mariti fossero ancora vivi".
In quell’occasione Nadia conobbe una giovane donna incinta, l'ennesima vittima dei sistematici abusi sessuali perpetrati durante la guerra. Nonostante l’orrore subito, decise di continuare la gravidanza e partorire quel bambino, figlio di una violenza. "Adesso è grandissimo, si chiama Ivan. Sono stata la sua madrina di battesimo". Ma Nadia ha ancora tante storie da raccontare. Come quella della madre bosniaca che cercava ospitalità in Italia per curare la figlia malata. E con loro, altri quattro bambini.
Nadia li accolse tutti. "Non capivano l’italiano e io non conoscevo la lingua. Non mangiavano niente. Allora ho contattato una signora che conoscevo a malapena, perché suo marito era venuto a comprare dei fiori nel mio negozio. Mi ha fatto da interprete aiutandomi tantissimo. Tuttora siamo grandi amiche". E il destino ha voluto che succedesse qualcosa di incredibile: "Grazie a lei sono riuscita a ritrovare dopo anni la madre di Ivan, con cui cercavo di mettermi in contatto da tempo. Niente avviene per caso".
In casa di Nadia si respira aria di accoglienza. E questo spirito lo ha trasmesso anche ai figli: "Una volta abbiamo portato nostro figlio più grande in uno dei nostri viaggi. Si è messo a distribuire caramelle in un ospedale in cui erano ospitati i bambini feriti dalle bombe giocattolo. Uno di loro non aveva le mani. Mio figlio, con tutta la naturalezza del mondo, ha scartato la caramella e gliel'ha messa in bocca. Una scena che non dimenticherò mai".
Episodi come questo sono diamanti preziosi che scaldano il cuore dell'umanità anche nelle pagine più buie della storia. Trent'anni dopo, Nadia si guarda indietro: "Per quanto brutta sia, la guerra deve finire. Non bisogna mai perdere la speranza". E grazie a persone come lei, ci sarà sempre uno spiraglio di luce.
Giulia Turato
GIVE EMOTIONS SRL | C.F. e P.IVA 04385760287 REA PD-385156 | Reg. Tribunale di Padova n. 2516