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Attualità
01.09.2025 - 12:56
Foto di repertorio
C’è una sfumatura di blu nel passato remoto dell’umanità, e arriva da una grotta sulle pendici del Caucaso. Un team internazionale coordinato dall’Università Ca’ Foscari Venezia ha scoperto le più antiche tracce conosciute di indigotina, una molecola naturale responsabile del colore indaco, su strumenti litici risalenti a 34.000 anni fa.
Una scoperta rivoluzionaria, pubblicata sulla rivista PLOS One, che apre nuove prospettive sull’uso delle piante da parte dei primi Homo sapiens, spingendo gli archeologi a riconsiderare le conoscenze tecnologiche e simboliche delle comunità paleolitiche.
La molecola individuata è l’indigotina, un colorante blu estratto dalla Isatis tinctoria L., pianta nota sin dall’antichità con il nome di guado. Non commestibile, la pianta veniva intenzionalmente lavorata, probabilmente per ottenere pigmenti o rimedi medicinali.
«Siamo davanti alla prima evidenza diretta dell’impiego di una pianta non alimentare da parte di comunità paleolitiche – spiega l’archeologa Laura Longo, coordinatrice dello studio –. Il nostro approccio multi-analitico ci permette di riconoscere catene operative complesse, in cui le piante venivano trasformate per scopi che andavano ben oltre la semplice sopravvivenza».
I reperti provengono dalla grotta di Dzudzuana, in Georgia, uno dei siti più importanti del Paleolitico superiore caucasico. I ciottoli di pietra esaminati, strumenti cosiddetti ground stone tools, mostrano segni evidenti di usura e residui blu fibrosi, riconducibili a lavorazioni meccaniche di foglie.
Le analisi sono state condotte con microscopia avanzata e tecniche spettroscopiche (Raman e FTIR), grazie alla collaborazione tra Ca’ Foscari e l’Università di Padova, e con il supporto del laboratorio SYCURI e del sincrotrone Elettra di Trieste.
La presenza dell’indigotina solleva interrogativi affascinanti. A cosa serviva? Colorazione di tessuti? Decorazioni corporali? Trattamenti curativi? Lo studio non dà risposte definitive, ma dimostra l’intenzionalità e la consapevolezza nell’uso di risorse vegetali non alimentari, un comportamento che finora si pensava molto più recente.
«La complessità culturale di queste comunità – osserva Longo – si riflette nella loro capacità di sfruttare le proprietà delle piante in modo articolato, probabilmente anche a fini simbolici o medicinali. Non parliamo più solo di caccia e raccolta, ma di una vera e propria cultura materiale delle piante».
Per confermare i risultati, il team ha ricostruito l’intero processo di lavorazione sperimentale del guado, utilizzando ciottoli raccolti nel fiume Nikrisi, lo stesso che scorre sotto la grotta. Le prove si sono svolte a Corte Badin, in Valpolicella, dove il guado è stato coltivato appositamente e lavorato con le stesse tecniche ipotizzate per il Paleolitico.
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