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Le banche non concedono prestiti a chi vuole fare impresa: preferiscono i lavoratori dipendenti

Imprese giovani

I giovani hanno diritto a essere incentivati alla creazione di imprese: ma le banche non ci sentono

Intanto le aziende chiudono (-400 mila l'anno scorso) e anche le partite Iva (-200mila)

Giuseppe de Concini, consulente d'impresa con esperienza trentennale
Con ricavi in calo, margini che si abbassano, costi in continuo aumento, uno strisciante disvalore sociale legato al termine profitto come a quello di libera impresa e un generale senso di abbandono da parte dello Stato (si pensi solo alla farsa dei cosiddetti ristori), la visione del futuro di chi intraprende in proprio flette spesso verso derive depressive. E così le aziende chiudono: secondo l’Huffington Post sono diminuite di 400.000 nel 2020. E chiudono anche le partite Iva: meno 200.000 nel 2020. Dopo il 2008, anche il 2012 e il 2020 sono ormai date nefaste che tutti riconoscono: date nelle quali crisi imponenti si sono sviluppate, date nelle quali i meno tutelati sono stati sospinti al limitare della soglia della povertà. Ciò va di pari passo con meccanismi che premiano e incentivano solo la relativa stabilità, il rivolo di reddito che - bello o brutto tempo economico vi sia - corre nelle tasche di chi lavora per altri, senza però rischiare mai in proprio. Provare per credere: le banche concedono prestiti esclusivamente a lavoratori dipendenti o pensionati guardando con disinvolta diffidenza (talvolta con scherno evidente) chi chiede risorse per fare impresa. Eppure chiunque abbia il minimo senso dell’economia sa che il percorso più coerente per limitare e/o sconfiggere la povertà non sono i sussidi, ma la creazione delle opportunità.

"Sostenere chi intraprende vuol dire correre un rischio calcolato ma salubre per l'economia"

I giovani hanno diritto a essere incentivati alla creazione di imprese: ma le banche non ci sentono
Sostenere chi intraprende (soprattutto i giovani) vuol dire anche correre un rischio calcolato ma salubre per il tessuto economico che, nel tempo, creerà valore aggiunto e nuove opportunità; bene, questa capacità di vedere il domani rispetto all’alea corsa oggi non appare più elemento costitutivo del dna delle banche. Queste preferiscono di gran lunga “la garanzia attuale seppur minima” al rischio d’impresa (che esse stesse non sanno più valutare correttamente grazie all’abbandono delle politiche interne di crescita e sviluppo delle risorse umane). Meglio allora adottare criteri rigidi, uno schema quasi automatico, un algoritmo: astruso, impossibile da spiegare, ma tutelante.

E' un mondo a rovescio: nessuno vuole più rischiare. E se avesse ragionato così Michelangelo?

Se Michelangelo avesse ragionato come le banche oggi, avrebbe dipinto il pavimento della Cappella Sistina, non il soffitto
E' un mondo a rovescio in cui nessuno vuole più rischiare perché nessuno più conosce il concetto di rischio. Eppure il rischio (che non è l’azzardo) è parte della vita di tutti. Neil Simon diceva: “Se non si rischiasse mai nella vita, Michelangelo avrebbe dipinto il pavimento della cappella Sistina”. Dunque ci si interroga: è proprio questo il mondo che vogliamo? Un mondo nel quale rischio sia sinonimo di bestemmia e dunque l’unica opzione possibile, per contrastare la povertà crescente, siano i sussidi? Chiediamoci: se lo Stato e gli istituti di credito nel loro complesso avessero mantenuto nei mitici anni Sessanta questa impostazione, il boom economico avrebbe avuto le stesse caratteristiche? E, più ancora, ci sarebbe stato davvero? Il 98% delle aziende italiane è oggi costituito da micro e piccole imprese. Sono i soggetti che stanno soffrendo di più nell’indifferenza di chi ha abdicato alla propria funzione di sostegno ben compensato (banche) e di coloro i quali pensano che tutto sommato rischiare sia una scelta negativa e che l’importante – in qualsiasi ambito – sia la propria deresponsabilizzazione. “Per avere cose mai avute, occorre fare cose mai fatte” sosteneva un autore greco. Ma questa saggezza oggi appare morta come la lingua nella quale è scritta.

Giuseppe de Concini

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