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Padova: Intervista al professor Nicola Andrea De Carlo, fondatore del Master sulle Risorse umane

Per il docente e studioso universitario si respira una rassegnazione palpabile che ha contenuto al minimo le reazioni e le tensioni sociali anche di chi per le restrizioni ha dovuto smettere di lavorare

"Mi piace pensare che stiamo vivendo un tempo sospeso. Un’espressione che usiamo anche per la convalescenza, quando al primo posto siamo chiamati a mettere la malattia e tutto il resto passa in secondo piano. La prima preoccupazione in questo anno e mezzo è stata la salvaguardia del bene più prezioso e la sopravvivenza da un virus particolarmente aggressivo. È una convalescenza particolarmente lunga e questo all’inizio non lo avevamo immaginato. C’è chi è entrato in una sorta di stasi generalizzata, chi al contrario è riuscito a mantenere tutto com’era prima, ma la maggior parte delle persone si ritrova in un semi limbo dal quale non si sa se come uscire”. Ad affermarlo è il professor Nicola Alberto De Carlo, fondatore e docente del Master interdisciplinare sulle Risorse umane dell’Università di Padova, studioso delle ragioni e dei significati dell’agire individuale e collettivo, oltre che di temi sociali. Lo abbiamo interpellato per capire come lo stiamo vivendo, questo tempo sospeso. E a che cosa ci porterà.Professor De Carlo, il prolungarsi delle chiusure ha causato reazioni circoscritte in quanto a tensione. Anche in chi ha dovuto continuare a rinunciare al proprio lavoro e si sente abbandonato. Poteva andare peggio? “La reazione è stata più contenuta di quanto avevamo potuto immaginare. Diciamo che all’inizio le persone hanno dovuto inventarsi nuove priorità e non c’erano molte alternative. Poi con l’evoluzione della pandemia paradossalmente siamo passati a una gestione per algoritmi, i colori delle regioni, che ha estraniato ancora di più le persone: l’automatismo della collocazione nei colori è stata un’abiura di ogni possibilità di scambio di opinioni su questo tema, accentuando ulteriormente il senso di distacco che la gente aveva già da una classe politica che anche prima della pandemia cercava soluzioni più per slogan che per confronto. Le persone si sono ritirate, rassegnandosi”. Quindi secondo lei si respira un senso di rassegnazione generale? “Non c’è dubbio, la rassegnazione è palpabile. Gli automatismi nella gestione della pandemia hanno portato a rassegnarsi a dover far passare un periodo contro il quale è possibile fare poco o addirittura niente. E che potrebbe proiettarsi in un futuro a breve, medio o lungo termine”. Una volta chiusa l’emergenza, torneremo a condurre esattamente la vita di prima o ci saranno conseguenze nei nostri comportamenti? “Credo che i rapporti fra le persone della stessa comunità, sia essa intesa come città o nazione, saranno diversi dal passato. Perché oggi c’è il Covid-19 ma domani potrebbero presentarsi altre infezioni, altri rischi per la nostra salute. Certo, nella storia gli esseri umani hanno sempre trovato un modo per uscire dalle situazioni di crisi. Abbiamo affrontato carestie, pestilenze e guerre. Ma tornare ad avere la vita relazionale e sociale che c’era prima di questa pandemia sarebbe stato possibile solo se l’esperienza che abbiamo vissuto fosse stata meno prolungata e dolorosa. Non dimentichiamo quanto dolore c’è stato, a partire dalla separazione dei genitori dai figli, con i vecchi che sono stati costretti a vivere isolati dal resto del mondo e dai propri affetti”. Perché per alcune persone è così difficile accettare con equilibrio ragionato la necessità di comportamenti che hanno come obiettivo il bene comune? Perché le regole, seppur rigide, da molti vengono vissute con rabbia, come una forte limitazione della libertà personale? “L’illusione degli uomini moderni è di riuscire ad essere artefici di un contrasto alle forze negative, sufficientemente dotati e speranzosi di successo. L’illusione di tenere sotto controllo le situazioni. Ma, appunto, è solo un’illusione. Basta guardarsi attorno: si arriva a prendersi a pietrate fra pescherecci per un pezzetto di mare, ci sono armi che tornano nei soliti luoghi da decenni”. C’è qualcosa di positivo che abbiamo imparato in questo tempo e di cui fare tesoro per il futuro? “Prima di tutto che è importante avere una cura maggiore di noi stessi, anche nell’assistenza e nella relazione psicologica. Abbiamo imparato che il buon lavoro può essere fatto anche a distanza e questa introduzione della tecnologia è una conquista che non sarà certo abbandonata. Ma abbiamo anche capito che è importante credere nel lavoro che facciamo, nel nostro impegno, nella nostra possibilità di cambiare quel poco di mondo per noi e per la collettività. Un poco che poi di-venta tantissimo. Essere impegnati in cose buone ci ha aiutati a vivere meglio questo tempo sospeso”. Sara Salin
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