La celebre artista di Creazzo si è "confessata" in occasione del Premio Basilica
Francesca Calearo, in arte Madame, s'è confessata in occasione del premio Basilica che ha ricevuto a Sandrigo
Se la chiamate cantante si arrabbia, se la definite artista va già meglio ma se volete centrare il suo essere e i suoi desideri parlate di Madame come un’insegnante. Vale a dire una persona che ha imparato qualcosa e lo riporta ad altri. L’insegnante, spiega, non impone ma condivide scoperte. È la sua “missione”, spiega. E per definirla Francesca fa riferimento al mito della caverna di Platone e alla psicoanalisi di Carl Gustav Jung che la affascina. Il suo identikit Francesca Calearo da Creazzo, in arte Madame, l’ha tracciato a Sandrigo, durante la cerimonia per il conferimento del premio Basilica Palladiana. A lei è stata consegnata la targa dell’edizione “giovani” mentre allo scienziato Federico Faggin è stato conferito il premio vero e proprio, per il contributo decisivo – così è scritto nella motivazione – a cambiare la vita sul pianeta Terra, prima con l’invenzione del microprocessore, cinquant’anni fa, e adesso con le sue riflessioni sul rapporto tra uomo e macchina, tra cervello e consapevolezza. Il premio è stato consegnato a entrambi da Antonio Chemello, presidente della Pro Sandrigo che organizza da 58 anni il premio. L’incontro è stato condotto dal giornalista Antonio Di Lorenzo, che ha intervistato il prof. Faggin e da Luca Ancetti, direttore del Giornale di Vicenza, che ha dialogato con Francesca Calearo. Qui di seguito, la sua intervista.
Perché Madame? È uscito da un generatore casuale di nomi per drag queen quando ero alle superiori.
Il prof. Faggin ha detto che sei una persona profonda. È un complimento significativo. È stata una sorta di riconoscimento reciproco, anche se per me da distanze abissali.
Sempre il prof. Faggin ci ha spiegato la differenza tra computer, coscienza e macchina: chi arriva prima per te? Le persone, perché sono il mio primo campo d’interesse.
Hai iniziato a scrivere per persone di cui ti eri innamorata. È ancora così? Sì. Poi bisogna spiegare il contesto di questo innamoramento. Diciamo che è un riconoscimento di stima particolare verso determinate persone che mi accendono qualcosa e allora mi viene da scrivere: ho bisogno di raccontare loro qualcosa, anche se poi giocoforza parlo a tutti.
E queste persone rispondono? Dipende. Ma l’obiettivo non è la corrispondenza, bensì quello che ne esce.
Dopo Sanremo hai spinto molto nelle interviste sull’aspetto della fluidità, della bisessualità… … i giornalisti hanno insistito.
Comunque, io ho anche provato a sentirmi più femminile: qualche volta ci riesco, spesso no. E a te? Hai anche un’età diversa.
A scuola i compagni ti chiamavano castoro. Magari sono gli stessi che adesso ti chiedono i biglietti per i concerti. E tu glieli dai? No, non vengono. Comunque non ho un senso di rivalsa o vendetta verso le altre persone. Non serve a nessuno. Mi viene spontaneo essere la parte migliore di me stessa. Cerco di risolvere il lato oscuro senza dare colpe agli altri. Perché le altre persone alla fine sono solo il nostro specchio.
Hai detto che da piccola non hai mai avuto una tua calligrafia. Perché? È una delle caratteristiche più curiose dell’infanzia e dell’adolescenza. Evidentemente non avendo un’identità formata ed essendo alla ricerca, anche in modo ansioso, entravo come una sorta di fantasmino nelle altre persone, vivevo la loro vita perfino nella scrittura. Questo, con il senno di poi, mi ha aiutato moltissimo nella comprensione dell’empatia verso le altre persone.
Tu hai diversi quadernetti della Tiger dove prendi appunti Fino all’estate scorsa sì. Adesso ho lasciato un po’ da parte la scrittura dei diari. Ora sono nella fase di spugna, in cui apprendo, se mi va bene comprendo anche.
Hai detto che vorresti essere un’insegnante. Perché? Ho sempre creduto che l’insegnamento sia il lavoro di maggiore responsabilità in cui ci dev’essere la maggiore umiltà, perché una persona deve essere da una parte nuda e dall’altra avere il senso del bene per gli altri. È un lavoro che, se fatto bene, con passione, diventa un fattore fondamentale per la società, per la cultura e la natura umana. La parola è solo il mezzo principale attraverso il quale si insegna.
Tu comunichi con un mezzo che usa le parole e la musica. Che rapporto hai con chi ascolta? Quando le persone mi danno una risposta, cioè mi dimostrano che hanno compreso il mio messaggio capisco che a mio modo sto insegnando. Certo, lo faccio con i miei vent’anni. Ma il mio obiettivo è anche di crescere assieme al mio pubblico. Succede come nel mito della caverna di Platone. Hai presente?
Ero assente quel giorno… Mi ritrovo in quel mito: uscire dalla caverna e poi riportare dentro quello che si è appreso fuori. Questo è il ruolo dell’insegnante cui ambisco moltissimo.
Hai detto di avere anche l’obiettivo di parlare semplice: cosa vuol dire? Bella domanda. Significa usare poche parole giuste per esprimere un concetto. Significa non aggiungere qualcosa di troppo e non togliere niente che non faccia capire quello che si vuole dire. Io aggiungo troppo di solito. Non mi piace molto come parlo.
Hai anche inventato delle parole: per esempio “nuvolescenza” Non ci sono ancora parole per tutto, però ci sono alcune sensazioni che non si riesce a spiegare: quando ti imbatti in questi sentimenti ti rendi conto di quanto manchi un termine. “Nuvolescenza” l’ho scritta cinque anni fa, cioè un’eternità: significava adolescenza fra le nuvole, che poi era un brano contro il bullismo. Ero anche molto rancorosa a quel tempo. Ora non sento più questa esigenza di creare parole se non nel mondo dei sentimenti e dei rapporti umani. Lì ancora mancano.
C’è una tua bella canzone famosa, “L’eccezione”, che è la sigla di una serie tv, “Bang bang baby”. Com’è nata? Mi sono attenuta a quanto mi hanno richiesto. È più facile scrivere, devo dire, quando compongo per me stessa. M’è uscito immediato il ritornello, quando dico: “Sono stata l’eccezione delle regole del mondo”. E più avanti: “Sono stata anch’io bambina ma solo per qualche secondo”.
Versi autobiografici? Sì, come quell’altro: “Io come una serpe cambio pelle scivolando fuori di me”.
Hai detto che il perbenismo è una piaga. Ma le persone perbene sono una risorsa. Certo. Da una parte c’è un fondo di menzogna, dall’altro un fondo di verità. Quando c’è la verità sono sempre d’accordo, quando c’è la menzogna, no.
Che rapporto hai con il silenzio? È più una paura o una ninna nanna? È un polso. Quando c’è silenzio c’è una parte di noi che emerge, quella che di solito mettiamo a tacere e che invece va ascoltata. Il silenzio è un momento di ricerca, di ascolto e di aperture.
Hai paura di dover confermare il successo che ti ha travolto? No, perché non devo confermare il successo o la mia presenza agli occhi di tutti. Il mio desiderio è procedere nella mia missione, quella che indicavo prima e che riguarda l’insegnamento. Quanto io sia visibile e quanto non lo sia è solo una conseguenza che non posso controllare. Non amo forzare le cose.
Tu leggi Jung, poi scrivi di sentirti in un flusso di anime con le quali o sei controcorrente o le hai alle spalle. Come mai la presenza così frequente di immagini da psicoanalisi? E come mai la presenza dello psicologo o dello psicoanalista nella tua vita? Se è utile curare il corpo, è necessario anche guardare la mente. Non è che si va in analisi perché si ha un problema grave. Almeno io non ce l’ho. Ma lo sento come una persona che mi accompagna nel mio percorso. Vedi, una persona che lavora con me mi ha detto: tu non puoi come Francesca andare davanti a tremila persone senza pensarci. O te la fai sotto o vai in panico. In quel momento stai solo lavorando e devi avere un approccio professionale. L’accompagnamento della mia psicoanalista, quindi, può essere veramente utile. E poi il mio campo di ricerca sono io stessa con le mie profondità. Anche per questo motivo è importante.
E quando sei davanti a diecimila persone a cantare come ti senti? Da Dio. Perché in quel momento sono su una cattedra e c’è qualcuno davanti a me che mi vuole ascoltare. Può essere anche uno solo, magari possono essere cento o duecento su tremila persone ma vogliono veramente ascoltare quello che dico, perché li ha colpiti e si sentono compresi. E io devo dare loro tutto quello che ho, le emozioni, devo diventare un rubinetto di qualcosa che non c’entra con me o con loro ma c’entra con un’emozione e un sentimento. Nel momento in cui sono Madame io sono annullata, sono una sorta di mezzo attraverso cui succedono le cose.
Nei tuoi concerti c’è anche il confessionale. Perché? Perché io nel mondo artistico non mi sono mai fatta problemi a dire quello che pensavo. Così ho voluto creare anche per chi mi ascolta un momento simile. Magari fuori da quel momento quelle persone non riescono a sentirsi così libere, ma nel confessionale sì. È importante. Come dire: io vi ho parlato per mezz’ora dei fatti miei e adesso mi dite qualcosa di vostro. In quel momento scatta una connessione.