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CRONACA
17.10.2025 - 14:26
Il casolare dei Ramponi completamente distrutto il giorno dopo l'esplosione
C’è un’eco antica che risuona tra le macerie della casa dei Ramponi, nella campagna di Castel d’Azzano. Un’eco che parla di miseria, di orgoglio, di solitudine. E di una tragedia che quasi tutti i conoscenti e gli abitanti della contrada San Martino definiscono come annunciata. Martedì scorso, la follia di una famiglia ormai ai margini ha travolto tre carabinieri – il brigadiere capo Valerio Daprà, il carabiniere scelto Davide Bernardello e il luogotenente Marco Piffari – uccisi nell’esplosione che ha squarciato la contrada San Martino.
Oggi, nella Basilica di Santa Giustina a Padova, si celebrano i loro funerali solenni alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. È stato proclamato il lutto nazionale, con le bandiere a mezz’asta in tutti gli edifici pubblici. A Castel d’Azzano il lutto cittadino durerà fino a domenica 19, mentre mercoledì sera le strade del paese si sono illuminate di una fiaccolata in memoria dei tre militari.
Chi erano i Ramponi? I vicini li descrivono come “fantasmi” che vivevano al margine della comunità, chiusi nel loro mondo fatto di silenzi e di miseria. Uscivano solo di notte, a lume di candela – le torce avrebbero “dato nell’occhio” – per accudire le mucche e i pochi campi rimasti.
La loro casa in contrada San Martino era immersa nel buio: nessuna utenza attiva, niente acqua né luce. Avevano perfino costruito una struttura sul tetto per raccogliere l’acqua piovana e si erano allacciati abusivamente alla rete elettrica cittadina per alimentare le telecamere di sorveglianza e un faro per gestire le bestie, di notte.
Fuggivano i contatti umani, preferendo percorrere cinque chilometri fino a Verona, nel quartiere Sacra Famiglia, per fare la spesa, pur di non incrociare i vicini.
In paese – come confermano alcuni residenti – un fatto strano o inconsueto era spesso salutato con quel “saranno stati i Ramponi”, carico dei pregiudizi e della diffidenza di ogni piccola comunità, ma col senno di poi purtroppo premonitore.
La lunga discesa dei Ramponi verso la disperazione comincia nel 2012, con un incidente che segna per sempre il destino della famiglia. Uno dei due fratelli, alla guida del trattore che trainava balle di fieno a fari spenti, travolse l’auto di Davide Meldo, un camionista che rientrava a casa. L’utilitaria si accartocciò sotto il rimorchio parcheggiato a bordo strada.
I Ramponi dovettero risarcire pesantemente la famiglia Meldo, e da quel debito nacque la spirale che li avrebbe distrutti.
Negli anni successivi, i fratelli furono costretti a vendere, pezzo dopo pezzo, tutti i loro terreni, fino a ridursi alla sola stalla con pochi campi. Persino questi furono poi pignorati e messi all’asta.
Un tempo, raccontano i vicini, il patrimonio dei Ramponi poteva valere fino a un milione di euro. Nel giro di quindici anni, era rimasto solo il nulla.
Le radici dei Ramponi erano profonde e radicate in località San Martino, a Castel d’Azzano, abitata da famiglie scese dalla Lessinia ottant’anni fa. Radici testimoniate da alcune parentele: lo zio, don Pio Ramponi, fu parroco della Chiesa di San Rocco a Marano di Valpolicella dal 1963 al 1995.
Ma negli ultimi anni la dignità contadina si era trasformata in ostinazione cieca, in attaccamento disperato alla “roba”.
La via San Martino, dove sorgeva la loro casa, è un lembo di terra sospeso tra Castel d’Azzano e Forette di Vigasio, un territorio di confine segnato da aziende agricole e silenzi. Perfino la chiesetta della contrada racconta questa divisione: metà dei banchi si trova di fatto a Castel d’Azzano, l’altra metà sotto il comune di Vigasio.
Quando anche la stalla fu pignorata, ai Ramponi non rimase più nulla. E secondo le prime ricostruzioni, l’esplosione di martedì scorso fu pianificata nei dettagli: l’estremo gesto di chi non accetta di perdere l’ultimo frammento della propria identità.
Una “ragionata follia”, come l’hanno definita alcuni, alimentata da anni di isolamento, rancore e miseria.
La mente corre inevitabilmente a Verga e al suo Mazzarò, il protagonista della celeberrima novella "La Roba", che dopo una vita passata ad accumulare proprietà, quando comprende di essere prossimo alla morte esce sull’aia e ammazza a colpi di bastone anatre e tacchini al grido straziante di “Roba mia, vientene con me!”.
È come se Maria Luisa Ramponi, nel far esplodere il piano terra saturo di gas, avesse pronunciato la stessa frase, incarnando fino all’ultimo respiro la logica spietata di un attaccamento assoluto alla proprietà.
Un eco letterario che sferza come le schegge dopo la detonazione. Una tragedia moderna, ma con il sapore arcaico di una follia contadina che affonda le sue radici in un mondo lontano e in un isolamento non solo economico ma anche morale.
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