Palazzo Monte di Pietà ospita la mostra “Daniele Calabi a Padova. L’architetto e la città nel secondo dopoguerra” a cura di Elena Svalduz e Stefano Zaggia

A partire dalla centralità della figura di
Daniele Calabi (1906-1964), la mostra indaga il contesto architettonico e urbano di Padova nel secondo dopoguerra, mettendo in luce una stagione particolarmente intensa dell’attività dell’ingegnere-architetto: quella svoltasi nella città patavina nel decennio, compreso tra il 1950 e il 1960. Una specifica attenzione viene riservata alla vicenda umana del giovane e promettente architetto costretto ad abbandonare i cantieri padovani degli anni Trenta del Novecento di cui era responsabile a seguito dell’applicazione delle leggi razziali. Una “frattura” drammatica, solo in parte ricomposta dalle esperienze progettuali e di vita. Padova accolse le novità importate dall’”esilio” brasiliano, fino a diventare la città a più alta densità di architetture di Daniele Calabi. Veronese di nascita, in gioventù Daniele Calabi (1906 - 1964) vive e lavora tra Milano, Padova e Parigi, prima di spostarsi a San Paolo in Brasile, scelta obbligata che gli procura una grande sofferenza. Tornato finalmente in Italia, sceglie ancora Milano e Padova, infine il Lido di Venezia, dove si trasferisce nel 1962 e dove progetta e realizza la sua ultima casa-studio. Ora, in occasione dei
sessant’anni dalla morte,
Padova presenta una mostra diffusa a lui interamente dedicata: una indagine approfondita del
contesto architettonico e urbano della città nel secondo dopoguerra che, partendo da un
focus sui progetti degli anni Cinquanta, si concentra su temi specifici sviluppati negli spazi di Ca' Lando e lungo il Liston, con l’obiettivo di favorire una riflessione sul rapporto vivo tra architettura e contesto urbano e offrire l’occasione per una esplorazione spontanea di una storia poco conosciuta. “Quando, impostando gli inviti a questa inaugurazione, i grafici mi hanno chiesto cosa indicare accanto al mio nome - racconta Donatella Calabi - mi sono chiesta se proporre un titolo accademico, o se più semplicemente non avrei dovuto dire figlia di Daniele Calabi, ma anche madre nobile dei curatori. Che questa sia per me una mostra molto importante da un punto di vista emotivo, prima ancora che come storica, è facilmente comprensibile. Ma vorrei anche sottolineare che alla preparazione di questo evento ha lavorato un gruppo numeroso di persone: da una fotografa agli allestitori, da un professore con i suoi studenti a un giovane esperto di dispositivi multimediali, dai due curatori e una borsista (tre miei allievi) e…perfino il mio adorato nipotino, promettente futuro “regista”. Non vi sembri retorico affermare che nel primo caso –come figlia-, nel secondo come ‘mamma-maestra’ di tanti giovani, ho sentito questa iniziativa come un’occasione importante di trasmissione della memoria: a una migliore conoscenza delle difficili esperienze di vita di Daniele Calabi, dei suoi modi di fare architettura, di ciò che riferendosi al “costruire” lui chiamava “il piacere dell’onestà”, della sua attività di docente in aula e in cantiere, che io stessa ho seguito prima della sua scomparsa”.
La mostra
La mostra 
(che è anche un libro)
Daniele Calabi a Padova. L’architetto e la città nel secondo dopoguerra, allestita a Palazzo del Monte di Pietà, a Padova, dal 19 maggio al 21 luglio, è organizzata dalla
Fondazione Barbara Cappochin, per i vent’anni della Biennale internazionale di architettura, con i dipartimenti dei Beni culturali e di Ingegneria civile edile e ambientale dell’università di Padova, e il contributo della Fondazione Cariparo. I curatori sono
Elena Svalduz e Stefano Zaggia, docenti di Storia dell'architettura rispettivamente al Dipartimento dei Beni culturali e al Dipartimento Icea dell’ateneo di Padova. Il percorso espositivo con disegni tecnici, esecutivi, schizzi, fotografie, pannelli con riproduzioni, elaborazioni di materiali storici e un dispositivo multimediale, curato da camerAnebbia, permette di “entrare" nella vicenda umana e professionale dell’ingegnere-architetto e propone una interessante (ri)lettura delle architetture realizzate, e ancora presenti in città, raccontate dalle fotografie del presente di
Alessandra Chemollo. Concepita come un viaggio di scoperta delle opere progettate tra il 1950 e il 1960 per una città in trasformazione, la mostra si apre con il focus sugli
anni Cinquanta e si chiude con una seconda sala dedicata agli anni di gioventù tra studi, formazione sul campo, la prima attività professionale e la brusca interruzione della carriera e della vita in Italia.
Padova rappresenta "un luogo di raccordo della vita di Calabi, dove è possibile fare una sintesi sulla sua opera", scrive la storica dell'architettura Martina Massaro nel libro che accompagna la mostra. Ed è vero, perché "questa è fatalmente la città dove resta la maggiore concentrazione di opere realizzate, oltre a quello rimaste sulla carta, allo stato di progetto, sia della prima fase dell'attività professionale, sia del periodo maturo, quando torna forte dell'esperienza fatta in Brasile". Dall’analisi dei tanti lavori emerge la firma,
il filo rosso che attraversa l'opera e la ricerca di Calabi, durante i primi anni, nella parentesi brasiliana e nel secondo periodo italiano:
l'uso del mattone, con le
tessiture murarie, la soluzione del patio, sperimentata in Brasile e portata a Padova, per creare un dialogo tra gli interni della casa e l'elemento naturale, e l’attenzione particolare per le viste, in costante relazione con la città. Un accurato lavoro di ricerca ha permesso di individuare i progetti fondamentali realizzati per la città:
dalla Clinica pediatrica ai condomini, dalle case dell’Alicorno a quelle per i professori. Per Svalduz e Zaggia, si legge nell’introduzione al saggio, “l’esplorazione ampia di diversi archivi ha portato alla luce documentazione per lo più inedita che ha consentito di rivedere non solo la genesi ma anche la cronologia delle opere, […] materiali che si pensavano completamente perduti o mancanti nelle collezioni archivistiche dell’architetto: schizzi, schemi progettuali, studi planimetrici rinvenuti soprattutto presso l’Archivio generale dell’Università di Padova”. Nel 1950 Calabi riprende i contatti con Carlo Anti ed è proprio l'ex rettore a proporgli il progetto delle case per professori per la Cooperativa edilizia dipendenti della pubblica istruzione e l’edificio multipiano tra via Falloppio (la casa nell'albero) e via sant’Eufemia è quello che, più di tutti, esibisce la sua firma. Tra il 1951 e il 1952, assunto come professionista collaboratore all'Ufficio tecnico e del Consorzio edilizio di ateneo, entrambi diretti da Giulio Brunetta, Calabi vuole tornare a lavorare su alcuni progetti lasciati in sospeso, tra cui quello per l’area ospedaliera. Dal 1952 l’amico Luigi Piccinato inizia a elaborare il Piano regolatore generale di Padova ed è in questo contesto di fermento e cambiamenti che le occasioni per nuovi incarichi si moltiplicano:
Calabi sceglie di stabilirsi in città, progettando una casa per sé e la sua famiglia all’Alicorno, quartiere che ospita case che rappresentano la sintesi perfetta del suo linguaggio e una visione di architettura a bassa densità.
Gli anni Cinquanta padovani sono ricchi di opportunità: lavora per committenti privati, come il medico Galeno Ceccarelli, Bruno Lattes, Alfredo Zuccari e Michelangelo Romanin Jacur, e collabora con Gaetano Zamperoni e Antonio Salce per la Euganea costruzioni, per cui realizza l’edificio multipiano di via Vescovado. Nel 1955 progetta e costruisce il condominio in via Gaspara Stampa e l’albergo Igea con la casa da appartamenti tra via Ospedale e via Gabelli. L’impegno per le abitazioni dei professori lo porta a realizzare, insieme a Brunetta, la casa in via Pio X per Bucciante e De Chigi, quella per Antonio Rostagni in via Rosmini e Casa Ceccarelli in via Stellini, che oggi non esiste più (della quale, in mostra, si può ammirare una piccola tela di Fulvio Pendini del 1953). In questo contesto maturano i progetti per le cliniche per l’ateneo che Calabi sviluppa collaborando con l’ingegnere Brunetta, con il quale interrompe successivamente i rapporti proprio nel quadro delle nuove opere per l’ospedale.
Mostra diffusa
Oltre all’esposizione, la città sarà palcoscenico di
due ulteriori location per una mostra diffusa che metta realmente in dialogo l’architettura e le persone, obiettivo che da sempre muove gli eventi della Fondazione Cappochin.
“Come è nostra consuetudine – spiega
Giuseppe Cappochin, Presidente della Fondazione Internazionale di architettura dedicata alla memoria della figlia Barbara –
alla mostra faranno da raccordo una serie di iniziative sparse nella città. A partire dai Tavoli in pietra che troveremo sul Liston di Padova, a cui se ne affiancheranno altri, tra Municipio e Palazzo del Bo, costruiti ad hoc per la mostra di Daniele Calabi”. La mostra diffusa si offre come risultato di un
laboratorio vivo "del fare", proposto da
Ca' Lando project,
e come occasione di dialogo con la città. Sul Liston, tra il Municipio e Palazzo del Bo, una installazione con più tavoli presenta immagini che raccontano storie di tessiture murarie, firma distintiva dell'opera di Calabi. Mentre Ca' Lando, in via Gabelli, a due passi dal “suo” albergo Igea, ospita
La casa brasiliana nel Padiglione e
Le gelosie murarie. Si tratta di un allestimento concreto, “costruito”, tattile, con la supervisione di
Edoardo Narne, docente di progettazione architettonica al Dicea e guida per le studentesse e gli studenti attivi a Ca' Lando, e la collaborazione di Fornace Sant'Anselmo di Loreggia Tavoli, anche immaginabili come alcuni lacerti di muro in grado di incarnare le tessiture “calabiane”: così il gruppo di progettazione,
coordinato dal Prof. Edoardo Narne del Dipartimento Icea, ha elaborato frammenti di sei emblematiche opere padovane capaci, nel Dopoguerra, di produrre un effettivo scarto nella produzione architettonica del territorio. Una restituzione e una reinterpretazione contemporanee dei caratteri architettonici delle opere dell'ingegnere-architetto. Spiega Narne a
Il Bo Live e lo racconta bene tra le pagine del libro dedicato a Calabi: “Abbiamo voluto valorizzare il suo prediletto materiale da costruzione, quel mattone dalle dimensioni precise (6x12, 5x26 centimetri), contraddistinto dalle altrettanto ben definite tonalità, vibranti tra il colore rosa e l’ocra. Lo incontriamo in tutte le diverse opere padovane, protagonista in quegli stessi impalcati costruttivi, in grado di impostare un confronto puntuale e preciso con le varie preesistenze storiche contigue”.