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LA MOSTRA
03.12.2025 - 05:11
L'artista Silvia Canton
C’è un filo che unisce le montagne del Nord-Est alle calli veneziane: un filo fatto di storia, di legno e di fragilità ambientale. È lo stesso filo che attraversa la ricerca artistica di Silvia Canton, protagonista della mostra L’amore finisce dove finisce l’erba. Dopo Vaia, il bostrico tipografo, che fino al 3 gennaio proseguirà nella prestigiosa Sala del Camino della Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia.
Curata da Martina Cavallarin con Antonio Caruso e organizzata da Techne Art Service, la mostra nasce da un’urgenza reale: rendere visibile, attraverso l’arte, l’impatto devastante che gli eventi climatici estremi stanno lasciando sui boschi del Nord-Est. Un contesto drammatico che trova eco già nel titolo, preso in prestito dai Versicoli quasi ecologici di Giorgio Caproni: “L’amore finisce dove finisce l’erba”: finisce là dove la foresta si assottiglia, dove l’equilibrio degli ecosistemi vacilla, dove la montagna respira a fatica.
La tempesta Vaia del 2018 ha lasciato dietro di sé una scia di alberi abbattuti, provocando ferite che non si sono mai rimarginate. Su quel legno indebolito ha attecchito il bostrico tipografo, un insetto autoctono che, complice l’aumento delle temperature, ha trovato terreno fertile per un’infestazione senza precedenti. Un tempo regolatore degli ecosistemi, oggi è diventato un vero e proprio flagello per le nostre foreste.
Le sue minuscole gallerie, che solcano la corteccia e affondano nel legno dell’abete rosso, sono diventate la trama dolorosa delle opere di Canton. L’artista si addentra nei boschi feriti, dove raccoglie cortecce e legni infestati, li disinfesta e li consolida con cura artistica. Non ne modifica la forma: li rispetta, li ascolta. Materiali fragili, destinati a decomporsi, trovano così nell’opera una nuova vita, diventando memoria viva di una ferita ancora aperta. A raccontarla sono le fitte trame scavate dal bostrico, emblema di un grido silenzioso che chiede di essere ascoltato.
La mostra veneziana, sostenuta da importanti patrocini – tra cui Fondazione Dolomiti UNESCO, Università degli Studi di Padova, i Dipartimenti DAFNAE e TESAF e Città Metropolitana di Venezia – è il cuore di un progetto più ampio che intreccia arte, ambiente e ricerca scientifica.
Accanto alle opere, l’esposizione è arricchita da contributi scientifici e divulgativi di studiosi e ricercatori, tra cui Emanuele Lingua, Massimo Faccoli e Raffaele Cavalli, oltre ai testi di Luigi Torreggiani e Pietro Lacasella, autori del volume Sottocorteccia – Un viaggio tra i boschi che cambiano, che offrono al pubblico un ulteriore livello di lettura.
Il visitatore è accompagnato in un percorso che va dalle nuove tecnologie per il monitoraggio del bostrico alle immagini satellitari, dalle trappole intelligenti per il controllo degli insetti agli studi sul legame tra cambiamento climatico e proliferazione dei parassiti. Arte e scienza dialogano insieme, con l’obiettivo di offrire alla collettività una chiave di lettura dei cambiamenti ambientali in atto, invitando alla riflessione.
La carriera di Silvia Canton, già nota per la ricerca sul riciclo del sughero e per la personale Il Fiore del Deserto ai Musei Civici di Treviso, trova in questo lavoro una maturità nuova. Le sue opere diventano totem contemporanei: raccontano di catastrofi annunciate, di una natura ridotta allo stremo, degli effetti collaterali di un fare umano diventato ormai insostenibile. È il ritratto di un’epoca dagli equilibri fragili, che impone scelte etiche e responsabili.
Ma sono anche un invito alla resistenza: la ferita è aperta, ma la promessa del cambiamento non deve mancare. E l’arte diventa lo strumento più potente per raccontarla.
Canton vive e lavora a Castelfranco Veneto, ma il suo sguardo è rivolto ai boschi del Nord-Est e alle loro cicatrici. “Come potrebbe tornare a essere bella, scomparso l’uomo, la terra?” si chiedeva Caproni.
Silvia Canton, con il suo lavoro, rilancia la domanda: come possiamo fare in modo che la terra resti bella mentre l’uomo c’è ancora?
Giulia Turato
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