sabato, 1 Aprile 2023

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Vidali: “Ci restano 10 anni perché i cambiamenti climatici non diventino totalmente irreversibili”

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Un’intervista a margine di un suo libro sull’ambiente pubblicato a Mimesis

Il professor Paolo Vidali, autore di un interessante libro sull’ambiente

È un denso, piacevole e profondo excursus storico del rapporto tra uomo e natura che ha il grande pregio di lanciare scottanti interrogativi e precisi ultimatum. È l’ultimo libro di Paolo Vidali, 66 anni, edito da Mimesis: s’intitola “Storia dell’idea di natura. Dal pensiero greco alla coscienza dell’Antropocene”.

Laurea in filosofia alla “Cattolica” di Milano, docente al liceo “Quadri” di Vicenza, accademico olimpico, Vidali tiene corsi di comunicazione all’università di Padova, alla “Luiss” di Roma e alla facoltà teologica del Triveneto. Ha lasciato l’insegnamento attivo ma non smette di tenere numerosi seminari e incontri.

Professore, perché un filosofo si occupa di natura, ormai sempre più guardata come fornitrice di materie prime, di energia da imbrigliare, di business da sfruttare? Forse perché siamo fuori tempo massimo?

La risposta è già nella domanda. Guardare alla natura come a un magazzino di risorse è frutto di una semplificazione e di una pericolosa ingenuità. La semplificazione sta nel pensare che possiamo interagire con l’ecosistema di cui siamo parte senza subirne le conseguenze. Le nostre azioni, ancor più quelle a forte impatto ambientale, determinano mutamenti che non siamo in grado di prevedere, né di governare. Quello in cui viviamo è un sistema complesso e, come mostrava già 50 anni fa il rapporto del Mit di Boston, commissionato dal Club di Roma, i processi messi in atto dall’erosione delle risorse naturali produrranno un collasso da cui usciremo pagando un prezzo altissimo, di certo superiore ai vantaggi che stiamo inseguendo. L’ingenuità consiste nel credere che la tecnologia o la stessa natura possano aiutarci a risolvere, nel futuro, i problemi che il passato e il presente hanno prodotto e stanno accumulando. Nel nostro modo di abitare la Terra o iniziamo con decisione una riconversione produttiva, e ancor prima culturale, oppure ci sarà ben poco da correggere. Abbiamo di fronte 10 anni perché i processi avviati non diventino totalmente irreversibili. Eppure ci comportiamo come se avessimo di fronte tempi e spazi che abbiamo già consumato.

Storia dell’idea di natura, il libro di Paolo Vidali edito da Mimesis

L’inquinamento delle falde, le concerie che faticosamente si sono date delle regole, i pfas sotto 180 chilometri quadrati di territorio tra Vicenza e Verona: come può, e come avrebbe dovuto, il pensiero (la cultura) illuminare l’operato (degli affari)?

È una domanda insidiosa. Un sistema industriale, come quello vicentino e in generale come quello inventato dalla cultura occidentale, certamente si radica in un modo di pensare, e quindi in una cultura. Che poi, per noi, è quella in cui domina l’utile, in cui l’individuo consuma attingendo indiscriminatamente a risorse comuni, in cui si ragiona nello stretto presente, condizionando con i nostri atti la vita di generazioni future. È una cultura dello scarto, non solo dei prodotti ma anche delle persone, della loro salute, della loro vita. Ma, come stiamo vedendo, anche un cambiamento culturale, che oggi ci rende più sensibili all’emergenza ambientale, non basta a interrompere la ricerca del profitto, il consumo di risorse e il degrado della Terra. Segno che i processi culturali non sono innocenti, ma nemmeno totalmente responsabili di fronte alla crisi in cui stiamo dibattendo. L’operato degli affari procede con una forza che solo un vasto movimento di popolo e una mutata concezione del vivere individuale possono sperare di codificare.

Vicenza, negli ultimi 100 anni, vanta scrittori, giornalisti, filosofi, politici, musicisti, prelati e santi anche di primo piano. Lei vede un ricambio all’orizzonte ai tanti nomi che abbiamo conosciuto? Lascerà il segno la sua generazione protagonista a cavallo dei due millenni?

Dopo la generazione dei nostri padri, a cui è stata affidata la ricostruzione di un Paese devastato dalla guerra, noi baby boomers siamo stati la generazione delle grandi idealità ma delle piccole realizzazioni. Certo sul piano dei diritti civili e sociali sono stati fatti passi da gigante. Non così sul tema dei diritti ambientali, una sorta di grande cecità che solo ora si manifesta come una carenza. Siamo cresciuti in una società del benessere e non siamo stati capaci di vederne i limiti. Se la nostra generazione lascerà un segno, sarà quello della crisi, e non è un contributo da poco.

Come insegnante di lungo corso (anche vicepreside) in un liceo prestigioso del capoluogo, che giudizio dà alle nuove leve che la sua classe docente ha allevato?

Positivo senza ombra di dubbio. Al di là delle classiche lamentazioni sulla carenza di studio, sulla stupidità del digitale, sulla fragilità emotiva dei figli – e sulla eccessiva tutela garantita dai loro genitori – fatte salve le dovute eccezioni, i giovani d’oggi sono molto più aperti che in passato, poco o per nulla ideologici, accoglienti rispetto alla diversità. Certo sono figli di un mondo globalizzato, il che permette loro uno sguardo più ampio ma produce in essi anche una fragilità maggiore. Sono i figli della complessità, e sarebbe un errore cercare di incasellarli nelle classiche semplificazioni tipiche del mondo adulto.

Lei ha un ricco retroterra cattolico e vive tuttora un rapporto significativo con realtà ecclesiali. Non le sembra che i cattolici, in politica ma anche nell’economia, nell’espressione di un pensiero come nel tratteggiare vie sociali proprie, non siano più così incisivi a Vicenza?

Per fortuna i cattolici non sono più così dominanti, se esserlo significa raccogliersi in un solo partito omninclusivo e in una logica di difesa delle proprie prerogative. In realtà la diaspora postconciliare, che ha toccato anche il Veneto bianco, ha portato alla luce quanto egoismo sociale si rannicchiava dietro le tende dell’appartenenza ecclesiale. È un bene che i cattolici abbiamo perso molto del loro potere in città. Questo ha lasciato spazio a una chiesa fatta di associazioni, gruppi, esperienze, persone che provano a testimoniare in proprio i valori evangelici, con molti limiti ma anche con una libertà e una franchezza nuove.

Dove dobbiamo rivolgere uno sguardo di speranza?

Sono due i mondi che, ai miei occhi, portano i sé i segni di una speranza cui guardare con fiducia. Uno è quello dei giovani, i primi ad essere figli dell’Europa e veri cittadini del mondo; il secondo è il mondo del volontariato, che mostra una vitalità e una disponibilità alla cura degli altri davvero straordinaria. Al di là della retorica del “prima gli italiani”, nei fatti stiamo mostrando di saper accogliere i fragili, i deboli, gli stranieri. Sappiamo mostrare, non sempre, non tutti, di essere migliori delle parole d’ordine con cui affrontiamo il cambiamento in atto.

Silvio Scacco

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